giovedì, aprile 12, 2007

Il progetto Semi di Libertà

da Isabella, Mario e Marco
Nell’ambito del Master sull’Agricoltura Etico-Sociale tenuto presso l’Università della Tuscia a Viterbo, un gruppo di tecnici provenienti da varie discipline e dai più diversi percorsi di vita ha voluto mettersi in gioco, sia per valorizzare le loro competenze nell’integrazione e il sostegno di persone in condizioni di disagio, e sia per verificare le loro stesse motivazioni…
Avendo avuto la possibilità di disporre di un casale semidiroccato con alcuni ettari di terreno - il podere San Fruttuoso della tenuta del Castelluzzo - nel comune di Bagnoregio, ci si vorrebbe impegnare nel suo restauro per creare un’oasi in cui siano accolti i più deboli, i più miseri, i più fragili, quelli insomma che non sono riusciti a difendersi dai meccanismi perversi di questa società: un’oasi in cui nessuno di chi entra debba avere tra i propri obbiettivi quello di accumulare ricchezza, ma solo la voglia di stare e lavorare insieme ai più piccoli e bisognosi di noi, e di ricevere e dare loro una ricchezza diversa: umana, sociale e di speranza.
E se degli utili ci saranno, saranno utilizzati per la crescita e le migliorie delle strutture e delle realtà agricole (riteniamo fondamentale salvaguardarle e valorizzarle ), per il sostentamento e la vita dei soci, specie di quelli deboli, e per altre iniziative sociali all’esterno.
Un modo questo per selezionare chi veramente può aderire ad un progetto di favola come il nostro. Fatevi avanti!

La prima idea di questo progetto ci è venuta grazie all’incontro con alcune detenute durante una visita didattica alla fattoria sociale della sezione femminile del carcere di Rebibbia.
Un’esperienza dall’intensa carica emozionale, ma anche una sconvolgente discesa agli inferi del carcere e della pena. Perché sono proprio le sezioni femminili quelle dove la durezza delle norme, delle strutture, dei comportamenti, delle consuetudini, si esprime in tutta la sua crudele assurdità. E su dei soggetti, le donne, in genere colpevoli solo di reati minimi, legati alla tossicodipendenza, alla prostituzione, alla clandestinità: più vittime che colpevoli insomma. Vittime delle circostanze, dei loro compagni, della loro stessa condizione femminile…
Una durezza inutile e crudele che nella disperazione dei giorni e delle opere finisce col rendere vano ogni impegno, personale e delle stesse Istituzioni, perché il carcere e la pena non siano più e solo strumento di punizione e di esclusione dalla società ma possano portare a quella presa di coscienza da cui dipende ogni speranza di reinserimento e liberazione.
Una presa di coscienza dei propri limiti e dei propri errori che è anche facile per chi, più che la “malavita” ha conosciuto solo una “vita mala”, fatta di abusi, droga, violenza, miseria materiale e morale, ma che da sola non può bastare se manca poi quella rete di relazioni personali, familiari e sociali in grado di dare sostegno e prospettive una volta fuori dal carcere.
Ed è stato proprio parlando con le detenute, dei loro sogni e delle loro speranze, del loro disperato anelito di vita e di libertà e delle loro ansie e turbamenti di fronte al futuro, che si è cominciato a pensare ad un percorso ed un progetto.
Il progetto allora di una struttura di accoglienza per le detenute uscite dal carcere - a fine pena o con misure alternative alla detenzione - dove imparino ad esercitare e gestire un’attività di agriristoro, integrata da una fattoria didattica, impegnandole non solo nella ristorazione, nell’accoglienza e nelle coltivazioni, ma avendo anche in mente l’apertura di adeguati laboratori artigianali insieme alla possibilità di completare o intraprendere gli studi, facendo loro conoscere i tempi ed i modi di una vita più sana e genuina, e con l’opportunità di stabilire nuove e più valide relazioni personali e sociali, utili per il futuro rientro nella società.
Un’attività, questa dell’agriturismo, in grado di unire nel nostro contesto - e in un ambiente comunque “protetto”, lontano da pericoli e tentazioni - le valenze positive del lavoro nel verde con le possibilità di socializzazione offerte dal continuo confronto col pubblico, aiutando queste ragazze a raggiungere, con la rinnovata fiducia in se stesse, negli altri e nelle proprie capacità, quella necessaria elaborazione del vissuto che, insieme all’ adeguamento alle regole della società, è condizione e premessa di una vera autonomia personale, sociale e culturale…
Terminata la prima fase di progettazione, ci si accinge ora ad entrare nell’operatività con un duplice percorso.
Da un lato, costituita l’Associazione di volontariato “San Fruttuoso”, si procederà al restauro delle strutture ed al reperimento dei fondi necessari per completare l’opera, impegnandoci personalmente negli stessi lavori agricoli e di muratura proprio come maniera di “fare gruppo” e di verificare sul campo le nostre capacità e motivazioni, cercando anche di allargare la partecipazione al progetto con l’acquisizione di nuove competenze e l’adesione di altri partner e volontari.
Dall’altro lato si prevede di iniziare la formazione delle detenute grazie ad alcuni corsi professionali sull’orticultura e sulla ristorazione da attivare presso le sezioni femminili delle Case Circondariali di Civitavecchia e Rebibbia, valendoci della collaborazione dell’Università della Tuscia e dell’Istituto Alberghiero di Civitevecchia. Con lo scopo sia di fornire alle detenute le necessarie competenze professionali che di mettere alla prova la loro reale volontà ad impegnarsi in questo percorso di inserimento sociale e lavorativo. Considerando anche che si tratta di un progetto “in itinere”, da modulare secondo le reali esigenze e possibilità delle detenute, e con la prospettiva di un ampliamento della dotazione di fabbricati e terreni e delle attività (turismo equestre, ippoterapia, bad & breakfast), come pure degli stessi soggetti beneficiari (anziani, disabili, minori …).

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