venerdì, novembre 09, 2007

“Il giardino che cura” non è un libro di medicina alternativa ma una riflessione a tutto campo – ricca di elementi scientifici, filosofici, antropologici, psicologici ed etici – sul benessere fisico, sociale e mentale dell’uomo e sui percorsi più sicuri per conservarlo.

L’autrice è Cristina Borghi, un medico-chirurgo che, partendo dalla propria esperienza professionale e personale, si rivolge innanzitutto ai suoi colleghi per convincerli ad abbandonare il modello biomedico, fondato sulla netta distinzione di stampo cartesiano tra mente e corpo. E propone, invece, di adottare l’approccio olistico, che considera il malato un tutt’uno dal punto di vista fisico e psichico e per questo carica l’infermo della responsabilità nelle scelte che riguardano la sua salute. Un approccio terapeutico quello olistico che l’autrice collega strettamente al rapporto uomo-natura e, in particolare, al giardino come utile complemento della cura. Appare, infatti, con sempre maggiore evidenza che prendersi cura delle piante risveglia il medico che è in noi e questa circostanza aiuta a migliorare la qualità della nostra vita.

La lettura del libro è molto piacevole perché la notevole mole di informazioni e di citazioni bibliografiche è presentata non solo con uno stile accattivante, ma anche con un apparato di schemi, rimandi e glossari che rendono il saggio accessibile a tutti.

Dopo decenni di sperimentazione nei paesi anglosassoni, anche in Italia sono in atto i primi tentativi per promuovere l’impiego del giardinaggio per la cura di determinate malattie o per preparare tecnici capaci di interpretare le esigenze del malato e del medico attraverso la progettazione dei giardini nei luoghi di cura. La Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Milano, ad esempio, ha svolto un corso di perfezionamento dal titolo Healing Gardens. La progettazione delle aree verdi annesse alle strutture di cura.

Queste attività non vanno confuse con l’azione terapeutica e riabilitativa che si realizza coltivando un orto o curando un giardino. A questo proposito, Cristina Borghi precisa in modo chiaro che gli healing gardens – i giardini che curano e cicatrizzano le ferite fisiche e morali – non costituiscono una terapia complementare a quella convenzionale, come invece è fuor di dubbio considerare l’ortoterapia nell’ambito dell’agricoltura sociale, ma vanno annoverati nelle pratiche della medicina olistica.

I “giardini che curano” sono, in realtà, dei potenti alleati del malato perché lo allontanano dal problema che lo affligge, gli consentono di recuperare le forze fisiche e mentali, incantano senza sforzo e nell’assoluto riposo della mente, elargiscono in continuazione quei doni della natura che servono a lenire la sofferenza, permettono il contatto con le piante che non sono mai una minaccia e non discriminano, ma aprono al dialogo e alla fiducia e predispongono l’infermo o la persona con disagio alla guarigione.

La scienza medica ha raggiunto, in un lasso di tempo assai breve, traguardi insperati in molti campi, mentre non ha ancora avuto successo nell’oncologia, l’infettivologia, la psichiatria, la neurologia e la geriatria. Ma è proprio nelle malattie che riguardano queste branche della medicina che i loro sintomi specifici, quali lo stress, l’infiammazione, l’ansia, la depressione, la dissociazione con l’ambiente, l’invecchiamento possono essere dominati e “guariti” attraverso quel particolare rapporto con il paesaggio che i giardini consentono.

L’autrice ipotizza, sintomo per sintomo, il meccanismo d’azione del giardino all’interno del nostro organismo, così come avviene coi farmaci quando questi sono in grado di modificare le alterazioni che la malattia genera nel nostro corpo. E lo valuta in base al criterio clinico finale della qualità della vita, anche se difficile da stimare.

Si tratta di un criterio formidabile perché – come ci fa osservare acutamente Cristina Borghi – se la qualità della vita migliora, forse non otteniamo la cura intesa in senso strettamente fisico, ma arriviamo comunque alla guarigione in quanto, ai fini della conduzione della nostra stessa vita, la percezione del nostro benessere è più importante del reale stato di salute. Del resto è noto come, in alcuni casi, la quantità di vita non sia un obiettivo etico sufficientemente forte quando la gravità della disabilità ci obbliga ad una vita scarsamente dignitosa.

Soprattutto quando si deve progettare l’ambiente dei luoghi di cura è necessario tener conto delle prerogative di prevenzione e di cura insite nel verde. E tale contesto chiama in causa un aspetto privilegiato degli healing gardens: la centralità del dialogo e della comunicazione tra discipline diverse, dei “camici bianchi” coi “camici verdi”, dei medici e degli operatori dei servizi socio-sanitari, da una parte, e degli architetti, paesaggisti, agronomi, vivaisti e giardinieri, dall’altra.

Tale richiamo, che l’autrice sottolinea con dovizia di argomenti e soprattutto elencando le buone pratiche dei paesi anglosassoni, non solo costituisce un evidente corollario del concetto di unità e di collegamento tra le persone, le professioni e l’ambiente in cui vivono, proprio dell’approccio olistico al paziente, ma è anche una salutare provocazione nei confronti del mondo della sanità pubblica e privata del nostro Paese, che ancora conserva atteggiamenti e convinzioni che derivano da una visione dei malati come un semplice insieme di organi ed apparati, di meccanismi da aggiustare e di contenitori da riempire di farmaci.

Cristina Borghi “Il giardino che cura” Giunti Editore 2007 Pagg. 240 Euro 9,50


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